Il Bar pittore


Quel bar chiude presto la sera, ti dico; ci passo ma non riesco mai a trovarlo aperto. Non che ci prenderei un caffè, però…

“Però cosa? mi dici, ed è un anno  che non ci vediamo.

Però, dico, magari se lo vedessi aperto mi fermerei; così, giusto per dare unocchiata.  

Sorridi.

Ci sediamo.

Questa città ci ha fatto un brutto scherzo, penso mentre ti osservo accendere una sigaretta leggera. Fumi spedita adesso eh? mi viene voglia di dire.

Sorridi ancora ed è come le altre volte.

“Non sei cambiato,” mdici e mi tocchi la barba per scherzare.

Pensavo, ti dico, a quanto poteva piovere quel giorno.

“Quale giorno?”, mi dici mente sistemi una ciocca di capelli dietro lorecchio, un gesto che ti ho visto fare almeno mille volte. Mi giro a guardare la gente che scende le scale.

Mi prendi le mani:

“Dai, quale giorno?”

Sei vestita elegante, non troppo ma abbastanza per farmi riconsiderare lo strappo sui miei jeans. Ti si vede il reggiseno tra i bottoni della camicetta! Mi viene da ridere e tu arrossisci.

Dai, ti dico, possibile che non ti ricordi? Qual è il giorno più piovoso che ti viene in mente?

Abbasso gli occhi perché sei troppo bella in questo preciso momento.

Ci pensi su, poi ridi e mi prendi il braccio:

“Tu sia maledetto! Mezz’ora mi hai fatto aspettare sotto il diluvio!”

La sera stessa, ti dico, ci siamo baciati la prima volta, iquesta piazza scema.

Ti stringi la camicetta e stiamo in silenzio.

– Sta stronza de città! – come direbbero i romani. Ci ha messi insieme e poi ci ha separati.

Ti guardo e vorrei tanto dirtelo: ma cosa ridi stupidina? Infili gli occhiali da sole e fai la misteriosa. Come piace a me, soltanto che oggi non riesco a toccarti neanche le mani.

Prendiamo un bus.

“E così passi davanti al Bar Van Gogh?” mi dici.

Sì, ma non è che sono  masochista: è di strada quando vado da Marco il bassista.

Sai che non è vero e ti trattieni a stento.

Il bus fa tutta Villa Borghese e vedo che ti soffermi a guardare nei punti giusti.

Allora ti ricordi qualcosa anche tu? tdico.

“Certo!” mi dici, “ricordo tutto, che ti credi?”

Prenoti la fermata: tguardo ma non sono stupito. Sono felice.

Scendiamo e ci sediamo sulla panchina giusta.

Faccio per parlare, ma mi blocchi con uno “Zitto!”che non ammette repliche e con l’indice tocchi un punto, sul marmo, dietro lo schienale.

Le nostre iniziali ci sono ancora.

Le hai mancate di tantissimo, ti dico, ma non è vero.

“Ma cosa dici?”

Ti giri anche tu e guardi: le hai centrate in pieno.

Mi offri una sigaretta? e fumiamo insieme.

Mi faccio coraggio:

Quanto ti fermi?

“Torno stasera col treno, alle sette.”

Sto zitto.

Anche tu.

Non voglio pensarci ma è inevitabile: mgiro in testa la scena del Bar Van Gogh.

Posso cambiare, lsai.

No che non cambi!

Cambierò per te.

L’hai detto tante di quelle volte che ormai non posso crederti più!

Sono cambiato invece, tdico.

“Anch’io” mi dici, “purtroppo.

Spengo la sigaretta col tacco e tu inizi a parlare d’altro. Ti ascolto ma penso alla piazza. Alla pioggia, al bar e alle iniziali. Ai sorrisi, alla camicetta, alle corse e al gelato all’amarena. Al tuo numero di cellulare, al rossetto che mi lasciavi sulla bocca, alle panchine e al primo bacio. L’ultimo me l’hai dato dietro al Bar Van Gogh. Erano le otto di sera e già stava chiudendo, pensa te.

Alle sette ti vedo prendere il treno.

Ci sentiamo? tdico.

Mi baci sulla guancia:

“Non farmi aspettare sotto la pioggia stavolta,” mi dici e il treno parte puntuale.

Domani ci ripasso, penso, magari verso le sette e mezzo lo trovo ancora aperto.


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