Nicolae è molto strano. “Che fai?”, dico. “Punisco…”, fa. Lo pensa anche Lev: “Quello è matto!”, dice. Che ridere: “Qui siamo tutti matti!”, gli faccio. Lo vedi accovacciato nel giardino, Nicolae, tutto preso. “Le avevo avvertite”, aggiunge e guarda per terra dove ci sono le formiche grosse. “La settimana scorsa”, fa senza guardarmi, “A dieci di loro ho schiacciato il pallino centrale”. Gli dico: “Che pallino?”, mi fa: “Uno, due e tre…”, contando i pallini neri che formano il corpo della formica. Poi dice: “Il primo pallino è la testa…”, lo indica, “se lo schiacci muoiono quasi subito. Si picchiano un po’ in quel punto con le zampe come indemoniate e poi smettono. Con l’ultimo gli prendono le convulsioni e cominciano ad agitare tutte le zampe. Guarda: Così…”, e muove a scatti i gomiti per aria. “Bleah!”, faccio, e lui si mette a ridere. Poi dice: “Se schiacci quello centrale gli altri due pallini iniziano a tremare. Penso sia una specie di stomaco, ma non credo sia vitale. R
Periodicamente mi succede di rileggere i racconti di Edgar Allan Poe. Questo perché la mia passione per la scrittura la devo molto al maestro di Boston che ho iniziato a leggere da piccolo. Ora, mi è capitato oggi di sfogliare le pagine del suo racconto: La maschera della morte rossa scritto nel 1842, e leggerlo oggi mi ha portato ad una riflessione che vorrei condividere. In sintesi nel racconto si parla di un signorotto che organizza una festa nella sua tenuta contornandosi dei suoi amici e cortigiani per sfuggire ad una mortale pestilenza. Che poi ovviamente riuscirà comunque ad entrare e contagiare tutti. Ecco, la trovo una interessante metafora di quello che è il mio sentimento, da profondo amante della letteratura, nei confronti della società odierna anche alla luce degli ultimi fatti di cronaca e politica. Non ne vado particolarmente fiero ed anzi è una cosa sulla quale devo ancora riflettere bene. Tuttavia mi sento mosso da un desiderio ineluttabile di rifugiarmi nelle lettere.
Fare poesia è scavare. Fino a quando non trovi la tua acqua personale. Fino a quando le mani non ti sanguinano. Fare poesia è usare quell'acqua e quel sangue come fossero creta. E modellare parole. Fare poesia è fermare gli istanti. Renderli eterni abbastanza da comporli in un mosaico perfetto. Colorarli poi di rosso coi sorrisi o nero con la rabbia. Fare poesia è non temere le proprie lacrime. Diventarne amico e lasciarle splendere sui palmi. Fare poesia è tenere in equilibrio su un dito tutte le sofferenze di una vita. È bagnarsi del proprio inchiostro, è chiudere gli occhi e riaprirli e morire e nascere ogni volta. Fare poesia è sporcarsi di mondo. E poi lavarsi di musica. Fare poesia è celebrare tutti i brividi che ti attraversano il corpo. Quelli dolorosi. Quelli piacevoli. Quelli eccitanti. Tutti. Fare poesia è guardare la propria anima con un microscopio fatto di petali di camelia. E poi trascriverla, quell'anima, con tutto quello che c'è dentro. E non c'è modo
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